L'Egitto di Amelia Edwards
È il 29 novembre 1873. Due donne entrano nella sala ristorante di un prestigioso hotel del Cairo, lo Shepheard's Hotel. Dai soffitti decorati con motivi arabeggianti e pitture raffinate scendono grandi lampadari in metallo traforato. Dalle grandi finestre ad arco la luce si diffonde sulle facce incuriosite dei commensali che si sporgono dalle colonne di marmo decorate in stile moresco. La sala è piena. Gli ospiti, seduti sulle lussuose sedie in legno intagliato sono vestiti in abiti eleganti: balze, ricami e cappellini per le donne, colletti alti, gilet e giacche per gli uomini. Sono per lo più inglesi o comunque europei. Già dall'inizio del diciannovesimo secolo gli europei sono ossessionati dall'Egitto. I musei si sono riempiti di reperti archeologici, le gallerie d'arte di disegni che ritraggono un oriente da Mille e una notte, le librerie di volumi che raccontano di viaggi esotici e avventurosi. La natura, il folklore, il fiume Nilo, i deserti, i monumenti imponenti, gli egiziani antichi e moderni. Tutto attrae di quella terra. La nuova era del turismo ottocentesco ha fatto dell'Egitto un enorme mercato. Uomini cagionevoli e donne pallide in cerca di un clima secco, artisti e scrittori affamati di ispirazione, esploratori a caccia di esotiche avventure, collezionisti in perenne ricerca di papiri e mummie, e poi politici, diplomatici, giornalisti, vecchi ufficiali in pensione e facoltosi aristocratici, egittologi e studiosi: sono tutti lì, comodamente seduti nella sala dello Shepheard's Hotel.
Il chiacchiericcio si interrompe mentre le due sconosciute incedono, guidate dal personale egiziano in questo strano ambiente in cui il fascino orientale si mescola al raffinato gusto europeo. Tutti si girano a guardarle. Hanno un aspetto trasandato, gli abiti gualciti e impolverati, i volti scavati e anneriti dal sole. Si solleva una nuvola di bisbigli. I nasi dei commensali dignitosamente seduti ai tavoli si arricciano. Sono esterrefatti di fronte a quella inconsueta visione: due donne che viaggiano senza un accompagnatore e che, per di più, si presentano nella sala senza neanche prendersi il disturbo di cambiarsi, con le gonne impiastricciate di fango e sbiadite dal sole! Siamo in piena epoca vittoriana. Sobrietà e rispettabilità sono le parole d'ordine. Chi sono, dunque, le due sopraggiunte, così poco inclini al rispetto delle rigide regole vittoriane? E come sono capitate in Egitto? Se qualcuno avesse avuto l'ardire di violare i dettami dell'etichetta e porre loro la domanda, avrebbero risposto: "stress da tempo atmosferico". Spesso un'avventura nasce da una "casualità": nel caso di Amelia e Lucy, questi i loro nomi, il motivo per cui sono giunte così a Sud è l'aver preso tanta pioggia in Francia, cosa che le ha spinte a ricercare il caldo nel Mediterraneo fino ad approdare in Egitto. Questa strana contingenza si trasformerà in un'avventura che impatterà la vita di una delle due donne: quella di Amelia Ann Blanford Edwards. Nel 1873, Amelia ha già oltrepassato i quarant'anni ed è una scrittrice e una giornalista affermata, ma il destino ha ancora in serbo per lei una sorpresa. Ma partiamo dall'inizio.
Amelia Edwards nasce nella Londra del 1831. La sua è una tipica famiglia della bassa borghesia desiderosa di elevarsi attraverso il buon gusto, la cultura e i libri. In questo ambiente domestico modesto ma raffinato cresce Amelia, istruita in casa nella musica, nell'arte e nella letteratura dalla madre Alicia, e sostenuta fin da bambina nella sua passione per la scrittura. A ventidue anni pubblica un racconto intitolato Annette e inizia a scrivere per diverse riviste, come il «Saturday Review» e il «Morning Post». Il suo primo romanzo, My Brother’s Wife, del 1855, ottiene molti lettori e buone recensioni. Tra il 1855 e il 1864, ne pubblica altri, tra cui Barbara’s History, che le procura successo e fama. A trentatré anni Amelia Edwards può considerarsi una donna del tutto indipendente. La sua conquistata autonomia le consente di assecondare uno dei suoi più grandi piaceri: esplorare il mondo, e senza la necessità di avere un accompagnatore. In verità, non viaggia mai sola, con lei c'è un’altra donna con cui ha una relazione sentimentale e il cui nome nei suoi scritti è contrassegnato dalla sola iniziale: «L.». L'ha conosciuta a Roma durante uno dei suoi primi viaggi in Europa. Si chiama Lucy Renshaw e la accompagnerà, prima sulle Dolomiti nel 1872, e poi in Egitto. Fin dal 1862, durante una vacanza nelle Fiandre, Amelia decide di tenere dei diari di viaggio. Successivamente li metterà in pubblico con gran successo. Nel 1873, il viaggio di Amelia e la sua compagna L. parte dall'Italia: dalle Dolomiti. L'avventuroso percorso tra picchi e valli allora sconosciuti ai più verrà riportato nel volume Untrodden Peaks and Unfrequented Valleys (Vette inesplorate e valli solitarie), destinato a diventare una guida imprescindibile per gli amanti dell’alpinismo. Poi le due lady passano in Francia per dipingere paesaggi collinari, ma sono perseguitate dalla pioggia. Ed è in quel momento che decidono di andare più a Sud.
«Mai una spedizione in terre lontane fu intrapresa con minore premeditazione».
Si dirigono prima a Nizza, da lì passano a Genova, poi Bologna e Ancona. Infine, da Brindisi, una burrascosa traversata le conduce ad Alessandria. Giungono al Cairo via treno, rifugiandosi in hotel prima ancora dell’arrivo delle valigie. Amelia si precipita affamata con l’amica nella grande sala dello Shepheard’s incurante degli sguardi, poi punta la fronte larga e il naso sottile verso la vetrata di fianco. Il sole finalmente splende. Quando l’indomani si sveglia, vede fuori dalla finestra
«le palme grigioverdi inchinare solennemente le loro cime piumate verso un’alba rosa mozzafiato».
Fuori dall'hotel le due donne si ritrovano immerse in un quadro vivo e pieno. Un vecchio con il banchetto di dolciumi, un ragazzino con l’asinello, un mendicante che dorme sui gradini della moschea, una donna velata con la sua giara d’acqua. E poi contadini a piedi nudi, beduini con turbanti, bizzarri dervisci, abissini dalla carnagione nerobluastra, giannizzeri a cavallo e commercianti seduti a gambe incrociate davanti ai loro micro-negozi. I vicoli ricoperti di travi e di stuoie, le finestre foderate da graticci di legno scuro, e i mercati di dolci, utensili, tabacco, ferro e rame, cose moresche, tessuti, tappeti. Le moschee, le chiese copte, il museo delle antichità e, infine, come una cornice dorata, le piramidi che si stagliano in lontananza. Questa visione, più di ogni altra, fa realizzare ad Amelia di essere finita in un sogno e di voler esplorare il Paese da cima a fondo. Avrebbe percorso l'Egitto per tutta la sua lunghezza, navigando lungo il fiume, fino alla seconda cateratta.
All'epoca, come oggi, i turisti viaggiavano all'interno di pacchetti confezionati. Era la Thomas Cook a organizzare i percorsi e gli spostamenti in "versione ridotta" per i viaggiatori inglesi poco desiderosi di avventurarsi in situazioni spiacevoli o poco inclini a privarsi dei comfort a cui erano abituati. La Thomas Cook era nata a Leicestershire nel 1841 ma già dopo trent'anni era riuscita a plasmare e deformare il mondo del viaggio in una produzione di massa. Ma Amelia Edwards non è in Egitto per fare salotto con i suoi compatrioti nelle hall o nelle sale da tè degli hotel dopo una breve visita nei siti più noti e superaffollati. Lei vuole immergersi in quel seducente ed esotico quadro in cui è stata catapultata per sbaglio. Ecco perché con la sua amica, il giorno successivo al loro arrivo al Cairo, si reca a Bulaq, all'epoca porto per l'attracco delle barche fluviali. Vuole affittare la famosa imbarcazione a fondo piatto che gli egiziani chiamano dahabiya. Dopo tre giorni di sfiancanti contrattazioni, riesce infine ad affittare un barcone a otto posti: la File. A bordo salgono: Amelia, L., la sua cameriera e un amico incontrato per caso, ma altri amici li avrebbero raggiunti dall’Europa nel giro di una settimana. La ciurma dell’imbarcazione è composta di dodici marinai, più il capitano, il timoniere, il cuoco e l’interprete. Accanto alla File naviga la piccola Bagstones, con a bordo altri tre inglesi, le signorine M. e B., che Amelia ha conosciuto nella traversata da Brindisi, e il loro nipote Alfred. La bella compagnia salpa i primi di dicembre.
Il primo ormeggio è nei pressi di Mit Rahina per raggiungere a dorso di mulo i siti dell'antica Menfi e di Saqqara. Il terreno su cui avanzano è un ammasso di detriti, cocci rotti, calcare, marmo, alabastro e ossa. Riempiono ogni centimetro di quell’altipiano. Basterebbe semplicemente infilare a occhi chiusi una mano nella terra per portarsi via resti preziosi e di notevole valore. Il viaggio prosegue verso sud. Si fermano alle cave di Turah dove scintilla il calcare bianco con cui furono rivestite le piramidi e, a Natale, sono a Minya in attesa degli altri componenti del gruppo. I nuovi arrivati sono un pittore, una coppia e la loro cameriera. Il barcone procede verso Assiut e poi Dendera. Infine, raggiunge il villaggio più famoso d’Egitto: Luxor, dove un tempo sorgeva l’antica Tebe o, come la chiamavano gli Egizi, Uaset (Sede dello scettro), con i suoi templi, i suoi monumenti funebri, la Valle dei Re e delle Regine.
«Enormi obelischi di granito luccicante, alcuni ancora eretti, altri distrutti e abbattuti; grandi estensioni di muri scolpiti con mirabili scene di battaglie, processioni sacerdotali ed elaborate cronache delle imprese dei re; […] colossi mutilati, piloni danneggiati, colonne cadute e iscrizioni geroglifiche senza fine».
La File e la Bagstones riprendono la navigazione verso Assuan. Il sole splende alto e il vento è favorevole. Ai tempi in cui viaggia Amelia, la diga di Assuan ancora non è stata costruita e quindi il Paese che vede, e che oggi non esiste più, è un Egitto scandito esclusivamente dal ritmo delle piene del Nilo. Il tempio di Iside è sull'isola di File, non è stato ancora smontato e rimontato sulla vicina isola di Agilkia per non essere travolto dalle acque del lago Nasser. Se le acque del Nilo sono abbastanza alte, a File si arriva e si entra in barca e il tempio si perlustra come una grotta naturale.
«Quando la barca scivolò più vicina tra i massi luccicanti, quei torrioni scolpiti si alzarono in alto e ancora più in alto contro il cielo. Non mostravano segno di rovina o di età. Tutto sembrava solido, maestoso, perfetto. Per un attimo era possibile immaginare che nulla fosse cambiato. Non ci saremmo sorpresi se il suono di canti antichi avesse attraversato l’aria tranquilla, o se una processione di sacerdoti vestiti di bianco che portavano l’arca velata del dio fosse giunta incedendo tra le palme e i piloni».
Superata la prima cateratta del fiume, Amelia e i suoi amici scivolano lenti sulle acque argentee del Nilo in direzione di Abu Simbel, l'ultima tappa. Le due dahabiyah procedono a fatica. L’aria è ferma e fa terribilmente caldo. Il silenzio ha una profondità e uno spessore. Le palme incorniciano le larghe sponde e ogni tanto arriva qualche raffica che riesce a farli smuovere di qualche miglio. Infine, quasi a mezzanotte, dietro l’ultima ansa, il grande tempio rupestre con le gigantesche statue di Ramses II spunta di fronte a loro. E' il 31 gennaio. La comitiva resta ai piedi dei colossi per più di due settimane. Poi si dirige a Uadi Halfa per vedere il secondo sbarramento del Nilo. Nel percorso di rientro, sostando di nuovo ad Abu Simbel, sotto una collinetta irregolare dietro il grande tempio, il pittore che viaggia con loro fa una scoperta.
«Vi prego di venire immediatamente. Ho trovato l’ingresso di una tomba. Per favore portate dei panini».
Amelia e i suoi compagni, che ricevono il messaggio mentre sono a bordo, lo raggiungono armati di vanghe. Sembra che sotto un tumulo ci sia qualcosa. Da un’apertura Amelia e gli altri si calano con delle candele in un buco e subito dopo si ritrovano in una piccola stanza quadrata con dei bassorilievi sulle pareti. Sperano in una tomba con annessa camera sepolcrale, mummie, sarcofagi, statuette, gioielli, papiri e “meraviglie senza fine”. Invece è solo un tempietto. La delusione non riesce, tuttavia, a smorzare l'entusiasmo e la soddisfazione della scoperta. Quest’ultima avventura chiude le serie dei commoventi tramonti d’oro sul Nilo che Amelia porterà a casa con sé, insieme alla vivida immagine di un mondo antico che sta lì immobile da millenni:
«una spianata ondulata di valli, pendii, fiumi e mari di sabbia, improvvisamente interrotta qua e là da spuntoni di roccia, da cumuli di muratura in rovina e da tombe scoperchiate. Una linea argentea costeggia il limite di questo mondo morto e scompare verso sud nella foschia che luccica sul lontano orizzonte».
A Thousand Miles Up The Nile (Mille miglia sul Nilo), pubblicato in Inghilterra nel 1877, fu un grande successo. Amelia non si era limitata a raccogliere le sue impressioni di viaggio. Aveva studiato, aveva imparato a leggere i geroglifici e si era tenuta in contatto con famosi archeologi come Gaston Maspero a Parigi e Reginald Stuart Poole a Londra. Cinque anni più tardi fondò, proprio insieme a quest'ultimo e a Sir Erasmus Wilson, l’Egypt Exploration Fund per finanziare scavi e progetti di recupero in Egitto. L'EEF fu la prima organizzazione straniera a ottenere concessioni di scavo in Egitto dall’Egitto. Tra i maggiori archeologi che si avvalsero dei suoi fondi ci furono Eduard Naville, che scavò nel Delta per ritrovare la rotta dell’Esodo, l’allora giovane Flinders Petrie, destinato a diventare un gigante dell’egittologia e lo stesso Howard Carter, lo scopritore della tomba di Tutankhamon, che fu inizialmente inviato in Egitto dall'EEF come disegnatore al fianco dell'archeologo Percy Newberry. Amelia Edwards si impegnò completamente nel sostegno di questa fondazione. Per promuovere raccolte di fondi, scriveva articoli su articoli sulle nuove scoperte, le ricerche e gli scavi. Tra il 1889 e il 1890, per questo scopo, fece un giro di conferenze negli Stati Uniti. Fu un lavoro massacrante: centoventi appuntamenti presso società scientifiche e università della costa orientale e del Midwest. Questo titanico sforzo le valse più tardi l'appellativo di «madrina dell’egittologia». Amelia Edwards, dopo un ultimo viaggio in Italia, morì nel 1892 colpita da una brutta influenza.
Riferimenti bibliografici
Amanda Adams, Ladies of the Field: Early Women Archaeologists and Their
Search for Adventure, Greystone Books, Vancouver 2010.
Amelia B. Edwards, A Thousand Miles Up The Nile, George Routledge and Sons, London 1891 (trad. it Mille miglia sul Nilo, Archinto, Milano 2006, questa traduzione non è integrale). È possibile consultare il testo originale su wikimedia e su digital library.
Altre informazioni su Amelia Edwards e sull’Egypt Exploration Fund da lei fondato sono reperibili su: www.ees.ac.uk.
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