Menfi: la bilancia delle Due Terre
Aggiornamento: 29 mar 2023
Di capitali l’Antico Egitto in 3000 anni di storia ne ha avute tante. Le più famose sono Menfi, capitale del Nord durante l’Antico Regno, e Tebe, capitale durante il Medio e il Nuovo Regno collocata al Sud. Ma prima di Menfi, i più antichi sovrani regnarono da Teni, nel Medio Egitto, di cui oggi resta solo il sito archeologico della vicina Abido, luogo in cui furono seppelliti quegli stessi re con la loro corte e che divenne nel tempo una città santa poiché, oltre a simboleggiare la nascita dello stato faraonico, si credeva che lì dimorasse il dio Osiride, che nella mitologia egizia per primo aveva governato sulla terra fertile. Durante il Medio Regno (2055-1790 a.C.), la capitale sorse, invece, nei pressi dell’oasi del Fayyum e dell’attuale el-Lisht e si chiamava Ity Taui. Successivamente, quando il paese si spaccò e a Nord governarono gli Hyksos, nel Secondo Periodo Intermedio (1790-1540 a.C.), la loro capitale era Avari, nel Delta orientale. Durante la diciottesima dinastia (1543-1292 a.C.), quando sul trono sedeva Akhenaton, il faraone eretico, la capitale fu spostata per un breve periodo da Tebe ad Akhetaton, una città che il faraone costruì da zero nell’attuale sito di Amarna poco più a sud di Beni Hasan. Più tardi, in epoca ramesside (1291-1080 a.C.) sorse Pi-Ramses. Seguirono Tanis, nel Delta orientale, durante il Terzo Periodo Intermedio (1080-672 a.C.) e Sais, nel Delta occidentale, in epoca tarda (672-332 a.C.). Con l’arrivo dei Macedoni (332-30 a.C.), infine, la capitale fu spostata a occidente del ramo canopico del Nilo e prese il nome del suo fondatore: Alessandria.
Tutte queste città sorsero in contesti storici e per motivazioni politiche ed economiche differenti. Tuttavia, quasi tutte hanno in comune una cosa. Della loro bellezza, della loro maestosità, dello sfarzo delle loro corti, dei palazzi, delle case, delle botteghe, delle fabbriche, è rimasto poco o nulla. Le città, infatti, furono sempre in tutte le epoche costruite con il fango. Fin dai tempi più antichi gli egiziani fabbricarono i loro mattoni con il terreno argilloso mescolato a paglia triturata. Colavano l’impasto fangoso dentro griglie di legno e lo facevano essiccare al sole. Con questo materiale costruirono le loro dimore. Una diversa cura fu riservata ai templi e ai monumenti funebri di nobili e sovrani, innalzati a imperitura gloria con la pietra e collocati spesso a ridosso del deserto per essere protetti dalle inondazioni e dal terreno umido..
Il triste destino di queste illustri città sembra tuttavia ancora più tragico quando si pensa a Menfi, una delle capitali più note e ammirate dell’antichità. Il suo nome, la “stabile e bella” (Men Nefer), ci dà l’idea di quanto monumentale e abbagliante dovesse apparire alla sua epoca e quanto longeva venisse considerata dagli egizi stessi. Fu infatti capitale durante tutto l’Antico Regno (dal 2700 a.C. al 2160 a.C. circa) ma mantenne il suo ruolo di snodo e cuore pulsante del Paese fino alla fine della civiltà egizia. Da quanto racconta Erodoto, la città era nata per volontà del primo faraone d’Egitto, un certo Mene, che aveva deviato il corso del fiume per collocarla là dove il Nilo si apriva a ventaglio e si spaccava in vari rami. I sacerdoti del tempio di Ptah raccontarono allo storico greco che a quei tempi il Nilo scorreva molto più vicino alla catena libica, radente alle piramidi che sorsero successivamente. Ecco quanto riporta Erodoto:
«[Mene] costrinse il fiume con degli sbarramenti a formare un’ansa, mise a secco l’antico alveo, e incanalò il fiume in modo che scorresse in mezzo alle catene montuose dei due deserti. […] Quando ebbe ridotto a terra asciutta lo spazio da cui era stato allontanato il fiume, ivi proprio fondò la città che ora si chiama Menfi».
Menfi, dunque, è Delta ma è già nella parte stretta del Nilo e segna l’inizio della Valle. E, in effetti, fu proprio questo il motivo per cui il faraone si accanì tanto a volerla lì, ingaggiando una battaglia con il fiume. Rappresentava il punto nevralgico in cui le due parti del paese si congiungevano. La città riproduceva simbolicamente col suo esserci forzato la ferrea volontà del sovrano di unire l’Egitto in un unico stato. Questo era il motivo per cui veniva chiamata anche “la bilancia delle Due terre”, punto di raccordo, garante dell’equilibrio e dell’armonia dell’intero Paese. Un altro nome che le fu attribuito era “le mura bianche”, poiché era circondata da possenti e candide mura. Uno dei rituali che inizialmente caratterizzarono l’insediamento di un nuovo faraone sul trono era la corsa attorno a queste mura per mostrare il vigore del nuovo leader e il suo simbolico possesso del regno. Nella città fu innalzato uno dei più grandiosi templi dell’antico Egitto. Era il santuario del dio Ptah, una delle divinità più importanti del pantheon egizio, fin dai tempi antichi luogo di attrazione per gli stranieri. L’edificio era talmente imponente e grandioso che i Greci finirono per identificare la “Casa del ka di Ptah” (Hut Ka Ptah) con la città e, successivamente, con l’intero Egitto (Aigyptos).
Ma dov’è finita oggi Menfi? Un boschetto di palme, un sentiero fangoso, una piana erbosa, un blocco informe di calcare annerito e corroso in mezzo a una pozza d’acqua, questo è l’attuale sito di Mit Rahina. Il grosso blocco di pietra è quanto rimane di uno dei due colossi di Ramses II (1279-1213 a.C.) che il grande faraone aveva fatto erigere davanti al tempio di Ptah per ingrandirlo e abbellirlo. Già per un viaggiatore ottocentesco, questo era il primo impatto con l’antica Men Nefer. Amelia Edwards, infatti, una scrittrice inglese che nel 1873 trascorse quattro mesi navigando sul Nilo e visitando le rovine dell’antica civiltà dei faraoni, si chiede nel suo diario di viaggio:dov’era finito il compagno del colosso? E il tempio, i piloni, gli obelischi e i viali di sfingi? Tutto quello che restava di Menfi erano collinette polverose costituite di «mattoni frantumati, cocci rotti e frammenti di calcare» su cui faticosamente si teneva in piedi un cespuglio di palme rachitiche. Qua e là spuntavano blocchi di pietra lavorata e tracce di fondazioni, ma niente che «riuscisse a indicare il tracciato di un muro di cinta, o la posizione di un grande edificio pubblico». Altri frammenti di granito scolpiti, «sfingi malandate, torsi senza gambe, figure sedute senza testa» e teste senza corpi a faccia in giù, erano adagiati sul tappeto erboso.
«Sistemati in un semicerchio regolare, sembravano sedere in un misero conclave, non troppo solenne, abbastanza ridicolo».
Erano diventati il rifugio ideale per le capre che andavano a pascolare e per i bambini che andavano a giocare a nascondino.
Di Menfi, la più antica e prestigiosa tra le gloriose capitali, rimanevano solo «alcuni enormi cumuli di rifiuti, una dozzina di statue rotte, e un nome!». E nient’altro.
Riferimenti bibliografici
Erodoto, Storie, Libro secondo.
Amelia Edwards, Mille miglia sul Nilo, Archinto, Milano 2006.
Stefania Bonura, Alla scoperta dei segreti dell'Antico Egitto, Newton Compton, Roma 2018.
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